La società di oggi è governata dall’economia politica proposta da Adam Smith e domina incontrastata; una “E” scritta corpo 72, mentre le altre “E”, compresa l’Educazione, e l’esemplarità viene scritta con i caratteri corpo 6.
L’economia politica promuove la ricchezza delle nazioni nel contesto di una macroeconomia a scapito del cittadino, determina leggi e norme che sovrastano il cittadino, lo schiacciano con tasse e rigide restrizioni, mentre c’è un’altra economia dal volto umano, dal cuore sensibile ed è l’economia sociale, dove l’aggettivo connotativo ne caratterizza la dimensione e la logica applicativa
Ne ha parlato a Catania il prof. Stefano Zamagni, docente di Economia all’Università di Bologna, nel corso di un convegno promosso dall’associazione FuturLab, che tende a promuovere una dinamica e operativa coscienza sociale per l’effettiva ricerca del bene comune, il collaborazione con l’UCSI (Unione cattolica della stampa italiana) Egli ha aperto delle pagine di storia poco conosciute, presentando l’opera del napoletano Antonio Genovesi (1713 -1760) scrittore, filosofo, economista e sacerdote , docente di metafisica all’Università di Napoli, dopo Giambattista Vico, quindi titolare della prima cattedra di Economia “Commercio e meccanica” .
Prendendo coscienza della decadenza culturale, materiale e spirituale, dopo l’illuminismo, ci si rese conto della necessità di intervenire per riportare le arti, il commercio e l’agricoltura a nuovi splendori, apportando nel nuovo panorama culturale italiano, la voglia di cercare mediante studi ed esperimenti il concetto della pubblica felicità, così da far uscire l’uomo dallo stato di “oscurità”.
L’economia doveva servire ai governi non solo per alimentare la ricchezza e la potenza delle nazioni, argomento cardine della filosofia smithiana, ma per favorire il benessere sociale è ancor più necessario promuovere la cultura e la civiltà.
Lo studioso, recentemente nominato da Papa Francesco nella Commissione di studi per l’economia in Vaticano, invita i cattolici a reagire contro chi vuole metterli sotto tutela. Valorizzare il terzo settore e la vitalità del volontariato è oggi un impegno primario per il Governo del Paese, evitando l’annunciata e minacciata catastrofe sociale.

In merito alla cultura dell’accoglienza il prof. Stefano Zamagni guardando all’attuale fase storica, in Italia e non solo, con gli occhi dell’accademico e del nonno, oltre che del cattolico da sempre impegnato nella società civile, interviene rispondendo al giornalista Diego Motta.

Segnatevi questa parola: aporofobia. «È una parola “greca”, vuol dire disprezzo del povero»
«Non si era mai visto un conflitto del genere, si tratta di una novità ignota alle epoche precedenti» ammette quando gli si chiede conto della stagione che stiamo attraversando, dell’odio riversato sugli ultimi e della palese insofferenza nei confronti di chi, dal basso, prova a trovare soluzioni a misura d’uomo alla povertà, alle migrazioni, alla domanda di futuro dei più fragili.

«Attenzione, l’aporofobia non è un sentimento che nasce, come accadeva una volta, ai piani alti della società. Non siamo di fronte allo scontro classico tra chi sta molto bene e chi sta male. La guerra sociale oggi è stata scatenata dai penultimi nei confronti degli ultimi, perché le élite e i ricchi non hanno nulla da temere dalle politiche redistributive di cui parlano i governi. Da noi, in Italia e nell’Occidente, semmai è la classe media ad essere tornata indietro».

Per Zamagni, il disegno che sta prendendo forma è chiaro: è quello di una società civile che si vuole sempre più schiacciata tra le forze dello Stato e del mercato, nel nostro Paese, «è l’obiettivo non dichiarato di mettere sotto tutela gli enti del terzo settore», in termini sia di fondi da utilizzare (sempre di meno) che di progetti da realizzare. «Per questo – spiega – è necessario che i cattolici, cui è legato in termini ideali il 70% delle organizzazioni attualmente presenti nella società civile e nel volontariato, non si tirino più indietro, si assumano le loro responsabilità e comincino a fare massa critica per poter incidere sulle scelte che davvero contano».

Professor Zamagni, il mondo della solidarietà in Italia è sotto schiaffo. Perché?
Perché è diventato scomodo. Finché metteva delle pezze a un sistema che tutto sommato funzionava, andava benissimo e non dava fastidio a nessuno. Poi abbiamo assistito a una crescita endogena fortissima, dal basso, che ha dimostrato come a parità di risorse, questo settore possa moltiplicare ricchezza e capitale umano. A partire dagli anni Sessanta, questo mondo ha mostrato capacità di volare. È stato allora che il mondo della politica ha avuto paura.

Non è prima un problema culturale, piuttosto che politico?
Certo. Il popolo italiano è sempre stato conosciuto nel mondo per la sua capacità di entrare in sintonia con il prossimo, per la sua compassione nei confronti degli ultimi. Ora invece si stanno diffondendo disprezzo e derisione: quando questo s’insinua anche nelle scuole, poi ci vuole tanto tempo per correggere atteggiamenti sbagliati.

Quali sono gli aspetti di questa deriva che più la preoccupano?
Si sta togliendo l’erba sotto i piedi a un intero mondo, senza avere il coraggio di metterlo al bando. Ai tempi del fascismo, il problema non esisteva perché il terzo settore non c’era… ma si bruciavano lo stesso le sedi di chi era scomodo… Ora però non possiamo commettere l’errore storico di stare alla finestra e non denunciare quanto sta succedendo. Sarebbe come commettere un peccato di omissione. Concretamente: abbiamo assistito al balletto di inizio anno sull’Ires per il non profit, siamo ancora in attesa di una dozzina di decreti attuativi sulla riforma del terzo settore, il cui Consiglio nazionale è stato convocato per la prima volta settimana scorsa dal giugno 2018, quando per legge dovrebbe essere convocato invece ogni tre mesi. Di fatto, i fondi pubblici per il sociale vengono sottratti al terzo settore per essere poi reindirizzati allo Stato, mentre tra i provvedimenti che aspetta il mondo della cooperazione ci sono importanti strumenti di finanza sociale, dalle obbligazioni ai prestiti. È tutto fermo.

Forse negli anni è mancata un po’ di autocritica da parte del terzo settore, che ha peccato di autoreferenzialità e non ha saputo individuare per tempo casi di malagestione.
Proprio questo è il problema. Servirebbe un Civil Compact in sede europea, un progetto sull’economia civile che guardi ai prossimi decenni, mettendo alla berlina chi ha sbagliato in questi anni. Da quando è nata un’intellighenzia del terzo settore, ripeto, la classe dirigente ha avuto paura che le si potesse sottrarre potere progressivamente. Il punto è che, essendosi spostato il conflitto tra classi sociali, il modello di ordine del passato non può più durare a lungo e le forze politiche attuali non sanno indicare la strada per trovare nuovi equilibri. Non abbiamo gli attrezzi giusti per affrontare questa nuova fase storica.

Come cambiare marcia, uscendo dalla sindrome possibile di una nuova “riserva indiana”?
La strategia non deve essere riformista, perché le riforme hanno il respiro corto. I cattolici ascoltino papa Francesco: serve una trasformazione complessiva del sistema, bisogna cambiarne le fondamenta e l’impianto. L’associazionismo non può fare solo diagnosi, servono terapie. Di più: il frazionismo fa male, soprattutto adesso che è evidente la strategia portata avanti per diminuire la presenza dei cattolici nel terzo settore e non solo.

Sta dicendo che, per superare la stagione del rancore e dell’offensiva contro le realtà che fanno solidarietà concreta, occorre rilanciare l’impegno diretto in politica dei cattolici?
Certo. Oggi come non mai servono i De Gasperi, non i politicanti. Occorrono nuove forze politiche e il mondo cattolico ha tutto il potenziale necessario per realizzare la trasformazione epocale evocata da Francesco. La strategia della polverizzazione e della diaspora ha fatto dei cattolici come delle reclute di questo o quel gruppo. È giunta l’ora di creare al contrario massa critica, per essere finalmente incisivi. Uno spostamento degli equilibri potrebbe avere effetti benefici anche sul terzo settore messo oggi alla berlina: se a questo mondo si togliessero i pesi che si stanno mettendo ora, si attuerebbe davvero il principio di sussidiarietà.

L’impegno di Futurlab e la scuola di formazione politica che è stata attivata a Catania vuole essere una goccia che fa crescere l’immensità del mare.
Guardando la realtà nella prospettiva di sviluppo e di crescita, il Prof. Zamagni richiama una pagina di storia letteraria. Mentre tutti conoscono il volume “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, suocero del Manzoni , pochi conoscono che il marchese Giacinto Dragonetti (1738-1818), giurista abruzzese e avvocato fiscalista, laureato alla cattedra di Genovesi a Napoli, e nel 1792 magistrato della Monarchia di Sicilia, la seconda carica per importanza dopo quella di viceré, scrisse in riposta al Beccaria: ”Delle virtù e dei premi” , un pamphlet del 1766, ristampato l’anno seguente in francese e nel 1769, persino in russo , ma rimasto sconosciuto in Italia.
Ora è necessario guardare il mondo e osservare la foresta che cresce e non l’albero che cade.
La ricerca della felicità, la valorizzazione delle virtù, premiando anche l’impegno profuso nel conseguire il benessere dei cittadini, costituiscono i nuovi filoni da seguire per assicurare all’economia sociale e alla cultura dell’accoglienza e dell’inclusione sociale una garanzia di successo e di sviluppo.
Le linee guida per una possibile risposta e “soluzione alla crisi” di oggi, crisi di lavoro, lentezza di sviluppo, blocco del progresso, sono da ricercarsi nei valori di alcune espressioni spesso abusate, distinguendo “dono” e “donazione”, reciprocità e gratuità, crescita e sviluppo, termini che ben adoperati rivelano un significato sociale differente nel costruire la cornice di un’economia sociale che ha per oggetto l’uomo non più “homo homini lupus”, bensì “amico della natura” e come tale capace di apprezzare e valorizzare i beni materiali, facendone buon uso secondo i principi dell’umanesimo civile che sostiene l’equità e la giustizia sociale. Il paradigma dell’uguaglianza costituisce la base della vera democrazia che rispetta e valorizza tutti e ciascuno.

Giuseppe Adernò